Franco Festa, La fine del gioco, Robin, Milano 2025

Nell’universo letterario la toponomastica di molte città è legata a crimini e delitti perpetrati in luoghi poi divenuti meta di pellegrinaggi reali o virtuali da parte dei tanti lettori che, nel tempo, hanno contribuito a rendere il giallo o il noir non più un genere minore, snobisticamente tenuto ai margini della letteratura, ma parte integrante e prestigiosa di essa, grazie anche all’interesse di un crescente numero di studiosi, a conferma di un riconoscimento che, da parte sua, il pubblico non gli ha mai lesinato.

D’altra parte, nel marasma di sangue e omicidi singoli e di massa che la cronaca ci propina tutti i giorni attraverso i mezzi d’informazione, la letteratura poliziesca ha avuto spesso anche il merito di anticipare eventi di crudeltà assoluta, di cui oggi, purtroppo, non ci si sorprende neanche più.

Fra i luoghi del delitto, anche Avellino, si parva licet, ha conquistato un suo protagonismo, grazie alla produzione narrativa di Franco Festa, il matematico giallista, il cui primo romanzo, Delitto al corso, uscito nel 2005, anticipava appunto un delitto avvenuto di recente proprio nella strada principale della città, e in quest’ultimo libro più volte rievocato.

Benché il giallo sembrerebbe adattarsi più alla categoria narrativa dell’azione e dell’intreccio che a quella dell’approccio psicologico-morale, in realtà l’indagine, svolta nei libri di Festa da due commissari, Melillo e Matarazzo, che si passano il testimone negli anni, non è solo un’analisi degli indizi, delle prove e dei sospetti, ma un’analisi che piuttosto privilegia quella dei protagonisti della storia, nera o gialla che sia, vuoi di quelli che commettono il crimine, vuoi di quelli che devono risolverlo, ma che si rivelano portatori altrettanto, se non di più, di conflitti all’interno di sé stessi e delle relazioni professionali e sentimentali.

Quindi non ritroviamo più, come spiegava Todorov, le due serie temporali che si danno nel romanzo enigma: "Non è avvenuto nessun delitto prima dell'inizio del racconto: il racconto coincide con l'azione": Franco Festa, di fronte alla presenza strabordante del Male, inteso come crimini contro la persona ma anche contro la comunità civile, molto più che sulla trama, devia inevitabilmente verso le cause che ad esso hanno inclinato il criminale: l'investigazione è perciò rivolta alle motivazioni, agli impulsi, alle passioni e agli istinti dell'individuo; si tratta di una ricerca della verità non più soltanto sul caso ma sull'uomo, in cui il protagonista si fa investigatore di sé stesso, col che ritorniamo a quella scrittura d'analisi, introspettiva, che è propria della buona letteratura.

E c'è, in ogni buona letteratura, uno strumento comune di ricerca, un medesimo territorio d'attraversare, uno stesso segno che marca il cammino: il corpo. In genere, i personaggi del romanzo giallo si servono del corpo per rinnegarlo, alcuni come per una sorta di autopunizione, ossessionati dai sensi di colpa, altri in nome di una violenza che trova nel corpo il suo bersaglio preferito. L'umiliazione e la degradazione corporale sono, nei due casi, uguali e diversi, specularmente opposti, quasi fosse l'uno il rovesciamento dell'altro.

Al masochismo di alcuni personaggi del libro (anche giovanissimi) corrisponde il sadismo di altri, alla verticalità degli slanci degli uni risponde l'orizzontalità delle posture degli altri: l'ascendere e il discendere sono due momenti di una stessa vertigine, quella dello sguardo che si apre sull'abisso del corpo e non sa raggiungerlo ma solo precipitarvi. "Corriamo verso di noi, per questo non possiamo mai raggiungerci": così Sartre, ne L'ètre et le néant. In ambedue i casi, quella che si crede un'esperienza dell'essere si risolve in un'esperienza dell'esserci. Rinnegando il corpo, e con esso il più efficace punto di contatto con gli altri, si perde in concreto la capacità d'amare. E una desolante assenza d'amore è quella che viene fuori dalle pagine del libro: c’è chi l’ha perso per un’ipertrofia dell’ego, sotto il segno dell'esibizionismo, della posa erotica, chi per l’immersione nel proprio ruolo professionale, tarpando le ali al contatto con l’alterità. Perfino gli amanti si protendono verso un altro che non c'è: è il proprio desiderio, costantemente insoddisfatto, che fa sì che gli amanti abbraccino il puro nulla. È facile traslare questa sensazione di nullità in una di morte, e presenziare a "un gioco di morte invece che un gioco d'amore", come scrive Umberto Galimberti, che aggiunge: "Perverso è ogni amore che si vive senza reciprocità [...] è quell'amore generato e contraddetto da quella «passione inutile» che spinge una coscienza a rite-nersi assoluta al punto da non desiderare altro che il proprio desiderio".

E non a caso le morti descritte in questo libro sono sempre convulse o raccapriccianti, spettacolari grand-guignoles in un tripudio di sangue, una macelleria insieme spaventosa e grottesca, perché così sono molti personaggi della Fine del gioco.

Libro complesso, ambizioso nei suoi fini, che non contemplano solo un’ennesima avventura di personaggi che abbiamo imparato a riconoscere e ad amare, ma anche un ritratto a tutto tondo della nostra città, fra scandali e sfrontatezza, beni perduti e nuove realtà da giustificare se non da accettare: così si raccontano i rapporti fra giovani e vecchie generazioni, fatto di incomprensioni ma anche di speranza, i cambiamenti radicali nell’ordinamento scolastico, nell’aspetto urbanistico, nella caduta di ideali che pure ci hanno formato fino a qualche decennio fa.

Una cupa atmosfera avvolge le nuove avventure di chi continua a voler salvaguardare l’ordine, sia interno sia esterno. Quando tutto sembra perduto, una voce, un “Ciao” inatteso, sembra tuttavia poter riaccendere la luce.

Aggrappiamoci a quel tuttavia.

Carla Perugini

11 giugno 2025