Ora la bottega di ceramica, dopo venti anni,  chiusa. Il laboratorio di Via Duomo, dove le mani, gli occhi, la materia e il fuoco trovavano un miracoloso equilibrio,  sbarrato. Fabio Mingarelli, in arte Ming, sua moglie Pina Rubino, sua madre Gabriella Rivalta, per decenni esperta impareggiabile della disciplina, quella chiusura forzata lĠ hanno vissuta come una ferita che ancora non si rimargina, Òcome il cuore di una Madonna trafitto dai pugnaliÓ. Non la cittˆ, per˜, muta e indifferente a tutto, in particolare  allĠagonia della sua collina della Terra. Non gli amministratori del presente o del passato, che, davanti a quella porta che lasciava intravedere meraviglie, ogni volta avevano tirato dritto . Ò La cittˆ di A.  gradevolmente mortaÓ, si potrebbe ripetere, usando il nome dellĠopera da lui esposta nellĠunica rassegna artistica dignitosa degli ultimi anni, quella che si tenne alla fine del 2013 nellĠex carcere borbonico: ÒArchitettura al muroÓ.  Un crocifisso a terra, un corpo indifeso e travolto da una cittˆ sfinita, eternamente sommersa dalle macerie dei suoi infiniti cantieri. Per Fabio quella della ceramica  stata una passione coltivata fin da bambino. Faenza, dovĠ nato, era ed  la capitale mondiale di questĠarte a torto considerata minore e il suo museo internazionale, il MIC,  uno scrigno di capolavori. Nella scuola ove la madre insegnava, il lungo processo di cottura degli oggetti nel forno, allora alimentato a legna, si dilatava per ore, e la professoressa spesso portava il figlioletto con sŽ, lasciandolo libero. Fu allora che la gioia di manipolare lĠargilla, i colori, gli smalti, la relazione fisica che stabil“ con la materia, lo incant˜. Non conosceva ancora, il piccolo, il sottile dolore che accompagna il ceramista quando, affidando al fuoco la propria opera, essa si pu˜ spaccare, incrinare, per un invisibile difetto del materiale. LĠavrebbe scoperto pi tardi, insieme ad altre irrequietezze, al desiderio irrefrenabile di nuove esperienze. Era giˆ un altro tempo, la famiglia si era trasferita ad Avellino. Il papˆ, Mario Mingarelli, integerrimo commissario di polizia della Digos, si trov˜ immerso in un altro fuoco, quello che attravers˜ la piccola cittˆ alla fine degli anni 70, e che port˜ allĠ arresto di  diversi giovani di buona famiglia, avvolti dalla cupa spirale terroristica. Ma non trasfer“ mai in casa questa tensione. Ai tre figli richiese solo un serio impegno scolastico, una forte disciplina personale. Mor“ molto giovane, e gli occhi di Fabio, inquieti, mobili, tremano ancora a quella perdita.   Dopo le medie la madre, che aveva visto allĠopera le mani del suo ragazzo e conosceva la sua inesauribile voglia di bellezza, avrebbe voluto che frequentasse lĠIstituto dĠarte, ma solo se fosse andato a Faenza , ed egli non se la sent“ di lasciare il mondo sentimentale che aveva iniziato a costruire qui.  Frequent˜ il Liceo scientifico ÒManciniÓ, poi si iscrisse per qualche anno a Medicina.  Ma preferiva disegnare, lo aveva sempre fatto, anteponeva la matita alle parole, era essa il suo mondo espressivo. Prov˜ altrove, divent˜ fisioterapista, per un pelo non si laure˜  in Scienze motorie, visse per un periodo immerso nel fervore della Bologna degli anni 80. E infine diede spazio alla sua anima profonda e cominci˜ a dipingere, nella continua, ossessiva ricerca di nuove sfide, di nuovi orizzonti creativi, che solo la sua compagna, Pina, prov˜ ad arginare, ma senza ostacolarlo, come le donne pi intelligenti sanno fare. Anche lei, dĠaltronde, era ed  unĠartista delicata, ceramista ed arpista di valore. Fabio si avvi˜ prima per la strada della pittura informale. Pollock, lĠespressionismo americano furono i suoi riferimenti, la violenza del tratto e lĠimmediatezza i suoi segni caratteristici, che furono usati come antidoto a quella che immaginava fosse un suo tratto caratteriale negativo, la lentezza, ed era invece altro: amore per il dettaglio, relazione dĠintimitˆ con lĠopera. Dur˜ molti anni, poi, con lunga sofferenza, cap“ che quella via era solo uno sfogo, che il suo mondo era un altro, lĠopposto: quello in cui si muove oggi con assoluta maestria, lĠuniverso del ritratto, in particolare del volto. E quella lentezza  diventata una risorsa, per passare dallĠidea iniziale - una figura intravista, uno sguardo rubato, una foto – al risultato finale. Ming non ha chiaro chi comanda, se lui o la creatura, quasi sempre femminile, che va prendendo forma sulla tela, prima con lo schizzo e la cura dei dettagli con la matita, quindi con il pennello che dˆ vita al colore del viso, un incarnato che lascia sgomenti, infine con lĠattenzione allo sfondo. Una lunga fase di indagine, un colloquio muto e irrequieto, uno sfibrante studiarsi per cinque, sei ore ogni giorno, senza che il tempo conti, purchŽ il dialogo non si interrompa, purchŽ anche un segno,  un solo tocco, rappresenti un passo avanti nella ricerca dellĠessenza profonda, del mondo che quegli occhi celano, della veritˆ che quel viso racconta. Come in una lunga costruzione dĠamore, a un certo punto la tela comincia a narrargli i suoi misteri, e Ming  la spia, senza essere visto,  scoprendo ci˜ che prima non  riusciva a vedere, bilanciando un contrasto, aggiungendo un particolare allĠapparenza insignificante ma che spalancherˆ orizzonti inesplorati al fruitore finale, che in quel viso si smarrirˆ e si ritroverˆ. Ed  il quadro, alla fine, a dire basta, in sintonia con il  cuore di Fabio, felice del risultato raggiunto. Questo faticoso ed esaltante processo porta ovviamente Mingarelli a completare un numero limitato di opere allĠanno, anche se la costanza e la determinazione con cui lavora hanno prodotto, finora, un buon numero di quadri. E lo spinge, per scelta, ad una vita quasi di clausura, dettata anche dalla assenza, che avverte con nitidezza , di un livello culturale in cittˆ degno di questo nome. Fabio non ama parlarne ma il suo sdegno, trattenuto a forza, fa cogliere che Avellino  per lui un ambiente meschino e ristretto, anche artisticamente, governato da individui posti al comando di enti e istituzioni non per meriti personali, ma solo per servile obbedienza. La sua scelta di isolamento, per˜, non  dolorosa, perchŽ  ravvivata dalla relazione costante con grandi pittori nazionali e internazionali, dal riconoscimento sempre pi vasto, specie fuori di qui, del suo lavoro, dalla ferma consapevolezza che egli ha della propria bravura artistica. Solo su un punto ha un attimo di smarrimento, quando il suo pensiero corre al figlio e ai ragazzi come lui, per i quali sembra che non esista nessun futuro, dissipato comĠ stato dalla voracitˆ clientelare delle generazioni precedenti. Poi nel suo cuore risuona una frase della madre, che le cose possono sempre cambiare,  parole che gli hanno dato, nei momenti di sfiducia,  la spinta, la tensione ad andare avanti. Infine lo sguardo di Ming ritorna a un suo dipinto. Allora il dialogo con quegli occhi che lo scrutano dalla tela riprende, e la sua anima si rasserena.