Il commissario Melillo e la sua città

Intervista di Generoso Picone

 

Perché raccontare una città, e Avellino in particolare, attraverso una

serie poliziesca?

Il fine che mi sono posto, quando è cominciata quest’avventura, è stato quello di rappresentare con la scrittura l’anima scura del luogo in cui vivo. Avevo l’ urgenza di andare oltre la consueta immagine di perbenismo imperante, di svelare l’ipocrisia su cui i cambiamenti della città e le scelte delle persone si sono retti. Volevo riportare al centro dell’attenzione del lettore scelleratezze, viltà private e collettive che hanno segnato anni apparentemente a noi lontani. E quale migliore strumento del noir, del poliziesco? Ho corso dei rischi, lo so, soprattutto quello di essere etichettato come uno scrittore di genere, di “paraletteratura”. Considerazioni spazzate via dalla critica letteraria della seconda metà del 900 - che ha sottolineato come il noir sia un’arma potente per raccontare la crisi del mondo contemporaneo -, e che pure ancora sopravvivono. Ogni tanto mi sento dire che sì, me la cavo a scrivere, ma quando scriverò il mio vero romanzo? Corbellerie perdonabili.  Ciò che davvero mi ferisce è invece se qualcuno riduce tutto il mio lavoro a nostalgia di una città che non c’è più, confondendo la cura che pongo nel ricostruire il quadro storico e civile con l’attaccamento a un mondo perduto. Non è così, anzi l’idea che mi guida è esattamente contraria. So però che i lettori vanno sempre rispettati. Da loro ho imparato tanto, nello straordinario gioco di rimando tra chi scrive e chi legge.  

 

Chi è Melillo? Da dove nasce? Quali i riferimenti letterari e socio-antropologici?

Premetto che io non sono un esperto di letteratura noir o gialla. E tutto avrei pensato nella mia vita, fuorché di inventare un personaggio come Melillo. Il primo romanzo è nato quasi per gioco, poi la scrittura è diventata una cosa seria. Melillo, dunque. La descrizione fisica è quella di mio padre da giovane, quando era un battagliero autista dei pullman della Sita; il nome è invece quello di un collega di mio padre. Il sistema di valori che il nostro commissario interpreta e difende- l’onestà, il rigore, il disinteresse, lo spiccato intuito analitico, l’amore per la sua città, la scelta di solitudine- sono traslati da chi scrive, dalle scelte della sua famiglia e da tanti riferimenti letterari e civili, indistinguibili: Simenon- non solo e non tanto quello di Maigret- , Durrenmatt, Caccioppoli, Pasolini, Carver, Chandler, Tolstoj, per dirne alcuni. Come si vede, personalità, scritture e scelte di vita distanti e diverse. Ma in me convivono, anche se tempestosamente, come il mio amore per la letteratura e la passione per la matematica.

 

Melillo non opera in un tempo definito, ma attraversa con le sue indagini le varie fasi della storia di Avellino, dal dopoguerra a oggi. Finisce per diventare così una sorta di categoria di giudizio etica della città. Volevi questo?

Senza dubbio sì, specialmente all’inizio, in cui l’intento etico era più forte. Poi  i personaggi e le loro storie hanno preso il sopravvento e la città si è spostata sullo sfondo. Quella tensione però non è venuta mai meno, ed è sempre la spinta segreta dell’agire del mio commissario, anche se le delusioni sono cresciute e il peso della solitudine si è fatto amaro.  

Va detto che avrei potuto scegliere strade più commerciali. La forza di questo genere è anche nei personaggi che ritornano sempre uguali, con i loro comprimari sempre identici e i luoghi spesso immutabili.  Così non è, nei miei romanzi. Tutto cambia ogni volta, solo Melillo, il commissario, ritorna, ma non ha personaggi fissi di contorno. E poi prima è giovane, poi adulto, infine, negli ultimi due libri  sono evidenti in lui i segni del tempo che passa. Nel romanzo in uscita, “La gratuità del male”, ha sessant’anni! Perché questa scelta? Perché avevo la necessità di raccontare, grazie a lui, l’amara storia di una città che per decenni non ha mai voluto fare i conti con se stessa, e ha operato terribili misfatti-urbanistici, civili, politici, umani- per evitare di fare questi conti.

 

A quale indagine di Melillo sei più affezionato o legato?

Domanda difficilissima! Potrei rispondere al secondo romanzo: “La quinta notte” che racconta la pagina terribile di una città deserta e con tutte le autorità in fuga dopo il bombardamento del ’43, attraversata ogni notte da iene umane. Forse perché non ha avuto l’eco sperata, forse perché alcuni suoi personaggi- come l’avvocato Curti, costruito sulla figura di Guido Dorso nel suo ultimo anno di vita- mi sono particolarmente cari. D’altronde è noto, si ha sempre un amore particolare per il proprio figlio più sfortunato.. Ma il romanzo che ritengo più maturo è l’ultimo edito: “La verità dell’ombra”, per i temi che affronta- la devastazione del Corso, la cancellazione della memoria – e per alcuni personaggi, come Luigi e la sua omosessualità. Senza tradire gli altri e naturalmente quello che uscirà.  

 

Il commissario Melillo si occuperà mai della Dogana di Avellino?

Teoricamente no, vista l’età che avrebbe oggi, ma la libertà in letteratura travalica spesso i limiti dell’ordinario. Visto però il lento disfacimento della struttura nel corso di tanti anni, potrebbe nascere l’idea di utilizzare come scenario di una storia  il vecchio cinema Umberto, che nella Dogana aveva la sua sede. D’altronde il processo di desertificazione del centro storico, di cui la Dogana è l’espressione più vergognosa e plateale, è cominciato allora, non fu un caso né una sventura caduta dal cielo, ma una scelta scriteriata e colpevole. Ma dovrebbero venire a bussare alla mia porta nuovi personaggi, che pretendano di essere raccontati.  Io non so comporre schemi a tavolino, non conosco mai, quando comincio a scrivere, come finirà, né il capitolo che sto scrivendo, né il romanzo. Ospito i miei personaggi, sono essi che occupano la scena e vivono da un certo punto di vita autonoma. È un procedimento difficile, ma è l’unico che conosco.

 

Ci sarà un Franco Festa senza Melillo?

Ho appena cominciato a lavorare a una storia tutta al presente, senza Melillo. E’ una scelta non tanto per accontentare i lettori che mi chiedono di “uccidere” Melillo perché – così affermano – ingombra la mia vita e m’impedisce di misurarmi con tentativi di scrittura più ampi, non di genere – ma esiste questo tipo di scrittura?– ma per affrontare più liberamente l’attualità. Ho dato vita, nel frattempo, a un personaggio assolutamente diverso da Melillo, il commissario Matarazzo, giovane, nervoso e impaziente. Ma questa volta, nel romanzo tutto ancora da scrivere non ci saranno commissari. Ci sarà certamente la città, che non ha più nome, non ha più volto, ma che intralcia e soffoca ogni ricerca di verità, che beffeggia e umilia le speranze di chi vuole guardare oltre le apparenze. Mi sto infine misurando con la scrittura teatrale. Sto terminando un atto unico, “Tunnel”, tutto incentrato su figure femminili e dedicato a tutti i ragazzi e le ragazze che non si arrendono. Ma non sono una persona superattiva. Sono solo un pigro curioso, che prova a restituire alla sua città un poco di verità: null’altro.             

 

 

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