Com’era finita lì?

Tra poco sarebbe stata notte. La porta l'aveva trovata subito, l’uscio socchiuso. Nella penombra l’umido divorava le pareti, i pavimenti, se ancora aveva senso chiamarli così, erano sconnessi, mancanti in più punti, lerci. Materiale ingombrante di ogni tipo affollava la prima stanza: cibi scaduti, buste marcite, cassette colme di alimenti ormai ridotti a immondizia, scatole sfondate, verdura puzzolente.  Alba cercò un fazzoletto per coprirsi la bocca, per non svenire per quell’odore putrido, asfissiante che stagnava dappertutto. Una tenda penzolante ricopriva a stento quella che doveva essere stata una finestra e ora era solo una bocca sdentata aperta sul vuoto, senza vetro, la maniglia divelta. C’era nella stanza lo stesso gelo inaudito che aveva trovato nel portone malandato, per le scale. Tutto aveva cambiato forma non appena era arrivata davanti al prefabbricato pesante, un residuo osceno del terremoto di 39 anni fa, ormai a pezzi, tra pilastri di ferro arrugginito, pareti ricolme di amianto, buchi che erano più prese d’aria che finestre; eppure abitato, anzi rigonfio di disgraziati.  Un fronte di guerra permanente, in più punti della città, centinaia e centinaia di famiglie a combattere ogni giorno il loro conflitto invisibile con il resto del mondo.

La donna era nella seconda stanza. Una  porta sfondata separava i due ambienti. L’oscurità, che nella prima stanza lasciava ancora intravedere gli oggetti, qui era l’unica presenza palpabile. Provò a cercare un interruttore, lo trovò, lo premette. Nulla. Rimase ferma, finché gli occhi non cominciarono a distinguere un letto, di fronte a lei, un armadio appoggiato a una parete, una finestra con la tapparella chiusa.                       

Su una  sedia verso il letto, forse, ci doveva essere  una candela in un piatto, ne distingueva il biancore.

Finalmente la vide.