"Non me lo dovevi fare!", borbottava Rotondi. Dalle brume del Nord, dove il CDU lo aveva relegato, arrivava l’eco dei suoi lamenti su Sorvino. Quell’uomo, per lui, era come un figlio, no, forse un padre, vabbè, un fratello. Per anni il nome dell’uno evocava l’altro. Ora vivevano divisi e lontani. Però ognuno si era sistemato bene, otto stanze e tripli servizi, in quell’enorme casermone che era diventato il centro. Era una specie di albergo decadente, in cui ognuno occupava stanze a fantasia. Chi si sistemava a destra, chi provava con la sinistra, chi, come Mastella, preferiva il double-face. Tutti vivevano nel vano sogno di occupare di nuovo tutto il fabbricato. E dovunque andassero, il padrone di casa era così disperato che li accoglieva a braccia aperte. Così era stato a Milano, con Formigoni, così ad Avellino, con l’ineffabile Maselli, la cui giunta era una specie di ospizio per anime sole. Nel frattempo soffrivano, ahi, come soffrivano…