Salvi aveva le antenne. Probabilmente, veniva da Marte. Il ministro del lavoro arrivava alla festa cittadina dei diessini, e non sapeva gli alieni che lo aspettavano. Erano cimici che litigavano per una goccia di sangue, tafani che si mordevano tra di loro, mentre in giro c’erano ragazzi costretti a lavorare per trecentomila lire al mese: quattro ore al giorno, in un call center, duemilacinquecento lire all’ora. Salvi era un anormale, un sovversivo pericoloso. Chiamava le cose con il loro nome, ancora si indignava, ancora nutriva speranze di cambiare. Intorno a lui, la politica aveva perduto il senso delle cose. Il massimo dello sport della sinistra era la scelta tra Amato e Rutelli, tra un armadio a muro e uno con le ante. E lui, invece, parlava ancora con garbo e con coraggio di giustizia sociale, di civiltà, di rose rosse. Occorreva sorvegliarlo a vista, prima che consentisse all’Ulivo di uscire dal suo letargo.