"Dunque, chi sono?", si chiedeva Enzo Venezia. " E dove vado?", borbottava dopo poco. " E soprattutto, che ci faccio qui?", concludeva sconsolato. Grande era la confusione sotto il cielo. Nessuno capiva più il suo ruolo, il suo posto, il suo senso. Aveva cominciato Pennetta, che era già l’ottava volta che si era dimesso e poi risistemato sulla seggiola. Aveva un’agenda a quadretti, per non dimenticare. " Ore 9, colazione con Ciriaco. Ore 10, dimissioni. Ore 13, ritiro delle dimissioni. Ore 18, cagnolini di Ciriaco". E così era per il povero Venezia, che saliva e scendeva dal cavallo di ambasciatore. "No, tu no!", gli dicevano i popolari. " Sì, tu sì!", gli giuravano Di Nunno e i diessini. Era arrivato al punto di non capire chi fosse lui, chi la sella e chi il cavallo. E ogni volta che, rimesso sull’arcione, era balzato via, giurava che quelle tracce a terra non erano sue, ma del cavallo. Intanto muoveva la criniera e nitriva disperato.