Opere di Fabio Mingarelli

 

Caro Fabio

Ho pensato che solo la forma epistolare, con il carattere intimo e privato che la ispira, anche se qui è letta pubblicamente, potesse rendere bene le cose che intendevo dirti. Ed eccomi allora qui, a leggere ad alta voce questi pochi righi, in occasione della tua mostra al teatro "Gesualdo" . Ascoltali, come se fossimo solo io e te.

Tu sei una persona gentile e sensibile e hai voluto chiamarmi per quest’occasione con il garbo che hai innato. Non conoscevi la terribile disavventura vissuta da mio figlio a Milano. Sia chiaro, non voglio angosciarti con le mie faccende private. E’ una festa troppo bella per noi e per te quella di questa sera, un riconoscimento troppo meritato che nulla può e deve turbare.

Seguimi perciò con calma e capirai che di gioia si tratta.

Ho lasciato Milano, un mese fa, con gli occhi di una bambina nella mente. Non ti dirò chi fosse la bambina. Ma nei suoi occhi teneri e profondi vi era il suggello di tutto ciò che era accaduto, soprattutto di terribile, ma non solo. Di tutto ciò che perdevamo, ma non solo. Di tutto il rimpianto e la malinconia, ma non solo. Ero convinto che, oltre gli occhi di quella bambina, nulla avrebbe più potuto raccontare l’esistenza. Nessuna frase, nessuna parola, nessun discorso. Tutte le frasi erano vuote, tutte le parole false, tutti i discorsi ipocriti. C’era solo il silenzio, in cui immergersi, e quegli occhi.

Perciò la mattina che mi hai chiamato  avrei voluto dirti di no.

Ma ho subito capito che non potevo.

Innanzitutto perché ai Mingarelli sono legato da un affetto che va oltre il tempo e le convenienze: a tuo padre, poliziotto gentile e straordinario, a tua madre, ceramista meravigliosa, che ti ha avviato sin da piccolo per le vie di quest’arte primitiva e magica in cui ora anche tu eccelli, a tuo fratello Massimo, che da ragazzo avevo guidato per le strade della matematica. A te, poi, caro Fabio , mi unisce da anni un comune sentire, un comune agire, un comune amore per la città che ti ha visto ultimamente protagonista instancabile e attivo della battaglia per la Dogana. Perciò ti ho detto sì. Ma il mio sì non poteva essere dettato solo da amicizia, da rispetto, da affetto. C’era altro, di assoluto, di più profondo. C’erano le tue opere, soprattutto i tuoi ritratti che mi avevano emozionato, tolto il fiato da subito, dalla prima volta, da quando ti scoprii all’esposizione alla casina del principe alcuni anni fa. Fin dalla prima volta ho subito capito quale fosse il tuo valore straordinario. Non sono un esperto di pittura, non ho approfondito a quali filoni ti colleghi, quali siano i maestri che ti hanno ispirato. E’ certamente importante. Non lo era per me. I tuoi quadri mi coinvolgevano, mi chiamavano, mi parlavano. Non solo per la forza materica, il fascino del colore sovrapposto così vivo, netto, ma in ogni particolare, in ogni dettaglio. Era un’emozione assoluta e totalizzante, a cui però non riuscivo a dare forma. E ogni ritratto, poi, maschile o femminile, conteneva qualcosa che mi sfuggiva, qualcosa di enigmatico, di magnetico, di misterioso, oltre la forma del viso, oltre la posizione del corpo, oltre l’inclinazione della faccia, oltre soprattutto lo sguardo, vera forza motrice, vera ancora, vero punto di svolta di tante tue opere. E i ritratti erano in qualche modo affrontabili con maggiore calma se lo sguardo del dipinto era diretto altrove, basso, perso, distratto, lontano. Turbavano, sconvolgevano – turbano, sconvolgono – se erano diritti verso l’ osservatore: stupiti, smarriti, provocanti, addolorati che fossero.

Cosa univa lo sguardo della ragazza con i capelli corti e sbarazzini – forse la Carla di un mio romanzo - con quello livido e sporco dell’uomo potente allo specchio, lo sguardo determinato, quasi minaccioso dell’opera “Io sono il nuovo re” con quello pensoso e addolorato, alla ricerca di sé del ritratto “ Colui che non punisce il male permette che sia fatto” ( anche nei titoli tornava il mistero, l’enigma). E la percezione distorta e la virgo asimmetrica su quale rottura si reggevano?

C’ erano deboli indizi che mi aiutavano. Sapevo ad esempio che, come ad un libro, ognuno collega ad un’ opera d’arte il proprio vissuto e che quel libro, quell’opera, è sempre incompiuta, perché si nutre di echi diversi, rimbalza in modo differente in ogni anima disposta all’ascolto. E ogni opera è restituita, al suo autore, diversa e trasfigurata nel misterioso legame che si crea tra artista e fruitore.

Ma quale era, nel mio caso, quel legame? Per mesi non lo avevo capito. Poi, d’un tratto, quando mi hai chiamato, in un momento difficile della mia vita, in cui ero certo che nulla si potesse più raccontare perché nulla poteva rappresentare ciò che era accaduto, quando ti ho sentito quella mattina,  la verità è apparsa all’improvviso chiara, precisa, inequivocabile.

C’era un legame di sangue, netto e profondo, tra gli occhi di quella bambina, che mi aveva guardato andare via in un freddo e luminoso pomeriggio milanese, occhi che contenevano tutto il dolore, la tragedia e anche la speranza, e gli occhi dei tuoi ritratti. Era la verità che pensavo non si potesse più raccontare, se non negli occhi di quella bambina, era il male gratuito che era apparso sulla scena e al quale pensavo non si potesse dare forma, era la serenità che era stata spezzata e che pensavo fosse stata cancellata per sempre.  Tu, nei tuoi ritratti, hai saputo ricucire il filo spezzato, raccontare quello che per me non era più raccontabile, dare forma visiva a ciò che ero convinto non fosse più rappresentabile.

Così, grazie a te, al vigore dei tuoi colori, ai tuoi volti straordinari, ho sentito che la vita tornava a fluire. Con lentezza, con un carico di mistero affascinante e doloroso, ma con la decisione che è propria della bellezza. E in quegli occhi che s’incontravano, gli occhi della bambina scolpiti nella mia mente , gli occhi dei tuoi ritratti, si realizzava un miracolo che solo l’arte poteva attuare, solo un poeta come te poteva compiere.

E a te sono grato, dal profondo del cuore.

Con eterna riconoscenza, Franco Festa.

 

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